Intervista allo scrittore Pietro Quadrino

Intervista allo scrittore Pietro Quadrino

 
Pietro Quadrino, attore teatrale di fama internazionale nonché autore del romanzo autobiografico di recente pubblicazione “Provaci ancora Brancusi”.  Una vita rocambolesca, una personalità ben decisa, un viso che ricorda  decisamente quello di un noto giornalista italiano. Trascrizione di una piacevolissima chiacchierata con una personaggio alquanto intrigante, fuori dagli schemi.
A cura di Hermes D'arienzo
 
Pietro, a che età e come ti sei avvicinato alla scrittura? Non ricordo con precisione quando ho iniziato a scrivere, ma direi che ero adolescente. Scrivevo diari, racconti, piccole avventure e a diciotto anni ho scritto per la prima volta un testo teatrale. Ma è stata una cosa incosciente all'inizio, non  pensavo sarebbe diventata una grande passione.
 
E - invece - in quale maniera ti sei avvicinato al più vasto mondo dello spettacolo e in particolare a quello teatrale? Alle scuole superiori seguivo il corso di teatro pomeridiano della scuola. Ma in verità, ricordo che già da bambino, mi divertivo a giocare da solo, inventandomi storie nelle quali recitavo tutti i personaggi. Mio fratello maggiore, guardandomi, pensava che fossi matto. Ho deciso che il teatro sarebbe stato la mia vita quando sono andato a Parigi. Avevo vent'anni.
 
Che cosa ami e che cosa - invece - non sopporti proprio del Teatro? Del teatro mi piace che un gruppo di persone che non si sono mai viste, si ritrovi nello stesso luogo, seduti insieme, in silenzio, in un atmosfera di aspettativa, di curiosità e anche di tensione. Il teatro è la porta di accesso per un altro mondo, per chi lo fa e per chi lo vede. Vai a teatro ed esci fuori dal tuo quotidiano, da quello che devi fare, dalla cena che devi preparare, dal lavoro che ti aspetta domani ecc. Entri in una dimensione dove lo spazio, il tempo e la morale, sono diversi. Entri nel regno del gioco, della fantasia e della libertà. Del teatro mi piacciono le sedie rosse di velluto, mi piace il rumore di un palcoscenico di legno che scricchiola, mi piace l'odore della polvere che c'è dietro le quinte, mi piace il sipario.Del teatro non sopporto il sistema politico economico che lo sorregge: non sopporto che le persone che gestiscono questo sistema (direttori, programmatori, politici - che spesso, sono la stessa persona) non abbiano il coraggio di prendere il MINIMO rischio per investire nei progetti e nei sogni delle compagnie più piccole, ma si rifugino costantemente in produzioni giganti, demenziali, costosissime, con le quali sono sicuri di riempire i loro teatri. Abbrutiscono il pubblico, lasciano nella miseria gli artisti e non gliene frega assolutamente niente del valore artistico dei loro progetti.    
 
Sii sincero, i tuoi studi sono stati “formativi” per la tua passione, oltre ad averti fornito le giuste ispirazioni? Sì. Tutti i miei studi, sinceramente, sono stati “formativi”. Ho iniziato a recitare studiando la Commedia dell'Arte, studiando le basi del teatro. Anni dopo, anche con artisti di teatro d'avanguardia, la mia esperienza da vecchia scuola mi è sempre tornata utile. Perché in fondo, che sia teatro classico, o una performance d'arte contemporanea, molti principi sui quali si regge la rappresentazione sono sempre gli stessi. C'è sempre qualcuno che “fa” e c'è sempre qualcuno che “guarda”. E la mia formazione teatrale, indubbiamente, mi ha aiutato a scrivere.
 
Ma veniamo a parlare del tuo ultimo romanzo, ovvero “Provaci ancora Brancusi!”...Il suo protagonista può essere - a tuo avviso - definito un vero e proprio “fatalista”? Direi di no. Silvano Brancusi ha effettivamente una concezione della vita che tende, a volte, a mistificare il corso degli eventi. Spesso, Dio viene chiamato in causa. La vita stessa, a volte, viene presa come un interlocutore, un po' come il destino nelle tragedie greche. Ma la verità è che Brancusi, al di là di questo, persegue spontaneamente i propri obbiettivi in qualsiasi caso, o almeno ci prova. Non è un personaggio passivo, non subisce gli eventi, tende a provocarli. Forse, quando se la prende col destino, con la vita, con Dio, per ciò che non gli viene dato, o ciò che non è come lui vorrebbe, forse non fa altro che prendersela con se stesso. Forse, non è altro che un modo per dare la colpa qualcun altro...
 
E tu ti definiresti un uomo che dona molta importanza al destino? Io credo che un uomo abbia una buona parte di responsabilità sul risultato della sua persona e della sua vita. Chiaramente, ci sono degli accadimenti ineluttabili e imprevedibili. Ora, c'è chi dice che è il destino, c'è chi dice che sono le stelle, c'è chi dice che è Dio, chi dice che in qualsiasi caso, la causa sei sempre tu. La mia verità è che se anche ci fosse un disegno, un destino, un fato, le stelle, o che so io, cercherei di agire come se non ci fossero.
 
Silvano, può essere a buona ragione visto come una sorta di tuo alter ego? Certamente. Per me era importante mettere una distanza tra le vicende raccontate e la mia vita. Il gioco fine di passare dalla realtà alla finzione, attraverso una linea sottile, è per me indispensabile, proprio come in teatro. Ed è anche il gioco che mi diverte di più. Ho difficoltà, per essere onesti, a inventare dal nulla qualcosa (ammesso che sia possibile), tendo invece a ispirarmi alla realtà delle cose che vivo, o che vivono persone a me vicine, e da lì partire.
 
Lui è un uomo che apparentemente pare debole e - invece - in certe situazioni risulta essere tutto il contrario...Credi che per diventare forti bisogna prima essere stati deboli? Penso che in tutti gli uomini ci sia forza e debolezza, il coraggio e la paura si alternano costantemente e a seconda del momento, del periodo della loro vita, delle condizioni in cui si ritrovano, le persone fanno delle scelte più o meno ispirate. E non credo ci sia un momento in cui questo gioco si risolva, va avanti così, per tutta la vita. Brancusi è un uomo apparentemente debole, anche vigliacco forse, pieno di paura e di insicurezza. Allo stesso tempo, però, è forte nel riconoscerlo, e coraggioso nelle scelte che questa ammissione di vulnerabilità comporta.  
 
Ritieni anche che per vivere una vita serena e appagante bisogna ottenere l'approvazione degli altri? È un tema a me caro che ho affrontato nel mio ultimo spettacolo, Jungle Dream. Un attore è una persona che per definizione ha bisogno di riflettori per essere illuminato e visto dagli altri. Se gli altri non ci sono, l'attore non esiste. Quando un teatro è vuoto, non c'è recita. Oppure, ma questo è un altro discorso, la si fa per qualche motivo religioso, metafisico come una preghiera. Uno scrittore scrive, perché qualcuno legga, un pittore dipinge perché qualcuno osservi. L'arte, in generale, è fatta per condividere e per unire. Io credo che lo stesso discorso valga per tutti noi. Abbiamo bisogno dello sguardo degli altri. Nello spettacolo, prendiamo a esempio la figura di Luigi XIV, un uomo che ha passato la sua intera vita come se fosse una rappresentazione teatrale. Una vita ossessionata dallo sguardo dell'altro, una vita passata sotto la luce, per essere visibile a tutti. Non per niente si faceva chiamare Re Sole. Oggi, con Fb, Twitter e che altro so io, lo facciamo tutti: mettiamo in mostra la nostra vita. Allo stesso tempo, un uomo solo, che vive fuori dal consorzio umano, è un uomo folle. Immagino ci sia una linea di equilibrio tra delirio megalomane di mettersi in mostra e follia solitaria. Per vivere in maniera serena, ognuno deve trovare la propria.
 
E che cosa bisogna fare - a tuo avviso - per ottenerla? Secondo me, ottenere l'approvazione degli altri, non vuole dire cercarla a tutti i costi. Anzi, questo può essere molto rischioso. Una volta, un vecchio regista, con molta più esperienza di me, mi disse: “Pietro, non puoi piacere a tutti.”
Semplice, ma vero.
 
Ma soprattutto chi sono veramente gli altri? Mmm, bella domanda! “L'autre c'est moi”, diceva Rimbaud, l'altro sono io.
 
Non è - forse - meglio circoscrivere questo grande gruppo in un altro ben più piccolo e definito? Immagino che a volte, basti brillare agli occhi di una sola persona, per sentirsi felici. Per Silvano Brancusi, per esempio, è quello che succede. Dipende probabilmente, dalle ambizioni di ognuno. Ma, ripeto, credo che cercare deliberatamente l'approvazione e l'ammirazione degli altri, sia pericoloso. Piuttosto, battersi per ciò in cui uno crede veramente, fino in fondo, senza doppi fini, senza interessi altri, con onestà, con tutto quello che uno ha. L'approvazione poi, forse verrà e forse, probabilmente, no. Ma almeno, uno ci avrà provato e questo secondo me conta anche di più.
 
Il viaggio può in qualche maniera aiutarci a svicolarci da questo circolo vizioso, ovvero dalla costante ricerca dell'approvazione degli altri, indirizzandoci - invece - verso la conoscenza del nostro Io più profondo? È spesso una buona maniera di relativizzare le cose, direi, un modo per guardare da angoli differenti, l'occasione di mettere in luce aspetti che non si erano notati prima. Ma conosco gente che ha viaggiato veramente in tutto il mondo, da nord a sud a est e ovest, e a me pare che del proprio io profondo, non abbia scoperto un bel niente...
 
Inoltre il viaggio può essere visto anche come una sorta di scelta di vita? Ecco, appunto. Forse quello che conta di più è la curiosità con la quale di solito si intraprende un viaggio. La curiosità ce la puoi avere anche nel tuo quotidiano, svegliandoti la mattina e andando a lavoro, nella stessa città dove hai sempre vissuto. E se hai quella, di cose ne puoi sempre scoprire.
 
E a proposito di vita, farai ritornare in un tuo prossimo romanzo il personaggio di Silvano? In tal caso puoi svelarci qualche chicca al riguardo? Eh, già! In effetti, sto scrivendo un nuovo romanzo. Silvano Brancusi tornerà nel prossimo libro, in un modo o nell'altro. Ma forse, non proprio come nel primo. Il suo autore cresce, cresce anche lui. E soprattutto, posso già dire, che ci sarà un nuovo personaggio a rubargli la vedette. Si tratta di Si Esrii Ad Sear, poeta marocchino, caro compagno d'avventure di Silvano Brancusi e grande, grandissimo truffatore.

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